Esecuzione a Salerno del capolavoro del genio francese, nella Chiesa di San Benedetto, sabato 6 aprile alle ore 20,30, un’idea di Francesco D’Arcangelo, in sinergia con Eleonora Laurito, Milva Coralluzzo e Caterina Squillace
Sabato 6 aprile, nella chiesa di San Benedetto alle ore 20,30, verrà eseguita la messa da Requiem op.48 di Gabriel Fauré. E’ questo un progetto, che saluta il patrocinio del Mic, della Regione Campania, unitamente alla Fondazione della Comunità Salernitana, nato dalla sinergia del violoncellista e direttore d’orchestra Francesco D’Arcangelo, direttore artistico dell’Associazione Gestione Musica e di Salerno Classica, con il Coro Estro Armonico diretto da Eleonora Laurito, le Voci bianche “Il Calicanto” preparate da Milva Coralluzzo e il Coro polifonico Casella guidato da Caterina Squillace, unitamente all’ Ensemble Salerno Classica, composto da Laura Quarantiello, Sergio Caggiano, Michela Coppola, Francesca Scognamiglio, alla viola, Maria Cristiana Tortora e Ludovica Ventre al cello, Marco Cuciniello al contrabbasso, Alfonso de Nardo e Mattia Abate al corno, Giuseppina Papaccio all’arpa e Marianna Meroni all’organo, con alla testa lo stesso D’Arcangelo. Il baritono solista sarà, invece, Francesco Auriemma.
“La versione del Requiem che andremo ad eseguire – ha dichiarato il direttore Francesco D’Arcangelo – segue l’orchestrazione del 1893 ossia quella intermedia ancora considerata versione “D’Eglise” ma arricchita di diversi nuovi strumenti rispetto alla prima versione. Dalle ricostruzioni di questo manoscritto risultano alcuni strumenti d’obbligo e alcuni opzionali. Nello specifico useremo 4 viole (2 viole prime e 2 viole seconde), 2 violoncelli con parti I e II, un contrabbasso, 2 fagotti, 2 corni, una tromba, arpa e organo ed il violino solista per il Sanctus che compare per l’ultima volta nelle orchestrazioni del Requiem prima di essere sostituito dall’aggiunta delle sezioni dei violini nell’ultima e definitiva versione del ‘900. Il Pie Jesu verrà eseguito come originariamente pensato da Faurè dalle voci bianche per conservare l’originaria purezza eterea della composizione. Si sa che Faurè nella versione finale preferì il soprano solista a confronto di una orchestrazione “piena“.
Andando a recuperare l’orchestrazione originale del 1893 (che non prevede le sezioni dei violini), il direttore D’arcangelo lavorerà a fondo sul controllo delle escursioni dinamiche e delle tensioni armoniche, a volte solo accennate, ottenendo una limpida trasparenza dell’ordito strumentale (in cui l’organo ricopre un ruolo principale), ma in modo particolare una sorprendente qualità e purezza dell’impianto vocale, contrappuntato dagli interventi delle voci bianche e del baritono. Un sottile crinale sospeso nello spazio, una sorta di reticolo annodato nel vuoto, questo il solo vero “umano”, consentito agli uomini.
E’ questo il Gabriel Faurè, maestro di Cappella e organista, ma affatto credente, che ritroveremo nella sua opera più importante il Requiem Op.48 prova di tutte le sue contraddizioni. Tali le ragioni estetiche: abolizione di ogni eccesso romantico, libera utilizzazione del linguaggio modale, avvicinamento frequente alla semplice salmodia affidata alla voce, mentre l’orchestra è discretamente arricchita dall’uso della polifonia. Propositi, questi, che portano a conseguenze inattese: in nessun’altra opera la sensualità di Faurè si riveste, per contrasto, di un carattere così soave e, la volontà di evitare ogni eccesso spezza l’equilibrio fra passione e grazia, nella purezza della sua linea, nella raffinata tornitura modale dell’accompagnamento, incarna alla perfezione la concezione di Fauré, fatta di tenerezza e di indicibile, quasi sovrumana dolcezza, specchio della personale concezione della morte dell’autore.
Quest’intenzione appare pienamente confermata dai tagli operati sul testo rituale; con le omissioni del Dies irae, il brano di cui invece Verdi, nello stesso periodo, fa il centro di un vero e proprio dramma religioso, una scelta che si giustifica solo in parte con l’adesione formale alla liturgia di rito parigino, del Rex tremendae, del Lacrymosa, con cui la minaccia terrificante del giudizio finale scompare quasi del tutto, lasciando tracce soltanto nel Libera me (scritto nel 1877 come brano autonomo e poi recuperato), che si distingue dalle altre parti per la sua intensità chiaroscurale e per la sua scrittura vocale ad ampie volute. Il resto della partitura sembra invece guardare alla polifonia rinascimentale, in particolare a Josquin Desprez, e al canto gregoriano: lo spirito del cantus planus si ritrova nella costante tendenza a muovere le linee melodiche per curve di limitatissima ampiezza e nell’elusione di qualsiasi forma di “sviluppo” nel senso classico del termine.
Retaggio ne è il Pie Jesu, che occupa la posizione centrale e che può essere considerato il vero cuore del Requiem: questo intervento delle voci bianche, nella purezza della sua linea, nella raffinata tornitura modale dell’accompagnamento, incarna alla perfezione la concezione di Fauré, fatta di tenerezza e di indicibile, quasi sovrumana dolcezza, specchio della personale concezione della morte dell’autore.
La composizione fu eseguita per la prima volta il 16 gennaio 1888 nell’Eglise de la Madeleine a Parigi, in seguito lo stesso Fauré confidò a un giornalista: «È stato detto che il mio Requiem non esprime il terrore della morte, qualcuno l’ha definito una ninna nanna. Ma è così che io sento la morte: come una liberazione, un’aspirazione alla felicità dell’aldilà, piuttosto che un passaggio doloroso […]. Può darsi che d’istinto abbia anche cercato di uscire dalle convenzioni; da tanto tempo accompagno all’organo servizi funebri. Ne ho fin sopra i capelli. Ho voluto fare un’altra cosa».
La serata verrà introdotta dal Coro Mani Bianche Mar.Let. diretto da Marina del Sorbo e Letizia Di Ruocco, la cui Mission è quella di favorire la partecipazione e l’inclusione mediante la convivialità delle differenze.
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